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Ilaria Gasparroni

Ci insegnano i linguisti che le particolarità lessicali delle diverse lingue naturali sono spesso rivelatrici del pensiero, della filosofia, dei sentimenti del popolo che le ha prodotte. Nelle due principali lingue correnti di ceppo germanico, l’inglese e il tedesco, un unico sostantivo (memory in inglese, Erinnerung in tedesco) indica sia la memoria che il ricordo: la facoltà del ricordare, quindi, è omonima del suo stesso contenuto singolo e specifico. Non è il caso, naturalmente, di invadere il campo altrui, ma nasce quasi inevitabilmente una suggestione: per quella cultura, il ricordo è forse una manifestazione locale della memoria, un suo prodotto. Per la cultura romanza, che distingue invece tra i due termini, il ricordo è un dato materiale, una preesistenza alla quale la memoria può solo attingere; non è il mondo a stare nella mia testa, insomma, ma è la mia testa a desiderare, mediante la rete dei ricordi, di far parte del mondo.
Benché “memoria” e “ricordo” siano menzionati esplicitamente – e ben distinti tra di loro – solo nel titolo dell’opera più recente esposta in questa occasione, mi pare che la relazione tra i due concetti stia alla base di tutta la ricerca artistica di Ilaria Gasparroni. Non come tematica principale (guai se un critico si permettesse di attribuire un tema all’artista, o tantomeno di psicanalizzarne il lavoro), ma come sottobosco poetico, come tensione subliminale che emerge nell’esperienza dell’opera da parte del fruitore. Anche allo sguardo meno allenato apparirà evidente la presenza del passato in questi lavori. Un passato che è tale innanzitutto rispetto alla deficitaria idea di forma che caratterizza il nostro presente, e che richiama ad una vecchia idea di scultura intesa, al di qua di slittamenti semantici e di «campi allargati», come esito dell’atto di scolpire. Non si tratta però solamente di un passato storico-artistico, di un generico citazionismo di una classicità sbiadita. Si tratta di un passato appartenente alla storia delle immagini; della riscoperta di un tempo in cui l’immagine, specie quella scultorea, diventava il proprio referente, ne ricreava miracolosamente la carne.
Ecco, credo che la carne costituisca la dimensione più adatta a configurare la distinzione memoria/ricordo: se il mondo non è il frutto di un “cogito” che si autoriproduce, ma un’alterità con la quale relazionarsi nel dialogo, nella scoperta reciproca, allora la memoria è il contributo della nostra mente a questo dialogo, mentre i ricordi sono la parte che il mondo le mette a disposizione. Intellettuale, cerebrale la prima, tangibili e fatti di carne i secondi. Sta forse qui la vera, radicale differenza tra il lavoro di Ilaria Gasparroni e quello di altri artisti, anche dai nomi altisonanti, che in decenni recenti hanno ripreso, frammentandola, la forma scultorea classica. Là il frammento era un togliere, era lo svuotamento postmoderno di una totalità, di un’unità formale coerente. Qui i frammenti, che sembrano incarnarsi sotto i nostri stessi occhi, sono un aggiungere, un affiorare del ricordo (materia) nella virtualità della memoria. E come ci raccontano i grandi pensatori di inizio novecento, da Kracauer a Benjamin, per quanto la nostra ingenuità ci faccia ambire ad una memoria onnipotente, capace di costruire narrazioni compatte e lineari, la storia (anche la nostra storia individuale) è fatta di frammenti, di singoli ricordi che ci toccano non per la loro forza concettuale, ma per l’azione della loro carne sulla nostra. La grande letteratura, a dire il vero, ci era già arrivata, con Proust e Joyce, ma già da prima con Baudelaire, al cui capolavoro poetico, I fiori del male, la nostra artista ha dedicato una serie di opere, tre delle quali esposte in queste sale.
Questa carne, nello specifico, è fatta di marmo. Il materiale che la tradizione ha antonomasticamente collegato al tema della memoria; il materiale d’elezione del monumento, ossia dell’ammonimento a ricordare. Una costruzione dall’alto in cui la carne di marmo del ricordo collettivo – coatto – sostituisce quella vera dei ricordi personali. Anche qui, Ilaria Gasparroni non si limita a constatare il fallimento della monumentalità; piuttosto, la recupera in una dimensione intima e parziale, entro la quale il marmo trova una sua carnalità propria. Mesi fa Ilaria mi raccontò un curioso aneddoto: un amico le aveva chiesto se provvedesse lei in prima persona a «fondere» i suoi marmi. Una gaffe intelligente, perché coglie quella processualità del ricordo – il disfarsi e il reincarnarsi – che lo rende sostanza dinamica della memoria. E che anima le opere scelte per questa mostra.

Kevin McManus

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