La collezionista di emozioni
Kevin McManus
Ormai 15 anni fa, Hal Foster introdusse nel dibattito critico la definizione di «impulso archivistico», o «pulsione archivistica» («Archival Impulse»). Si trattava di un raffinato ossimoro che gli consentiva di analizzare una tendenza ben precisa dell’arte contemporanea, sottraendola all’interpretazione legata alla “schizofrenia” postmoderna e collocandola invece nell’ambito di un sentire consolidato. Si trattava di tutte quelle forme d’arte che contemplavano una collezione o un archivio, raccogliendo e classificando materiali preesistenti al di fuori di qualsiasi logica funzionale, oppure creando da zero oggetti tenuti insieme da un criterio seriale e quasi rituale. Il collezionismo, l’archiviazione ordinata della realtà superavano lo stereotipo della fredda razionalità classificatoria mettendo in luce, al contrario, la propria natura ossessiva (o ossessivo-compulsiva), la pulsione, appunto, che ne stava alla base, e che diventava in certi casi pulsione estetica, quasi un feticismo delle forme e della fenomenologia del raccogliere, schedare ed etichettare. Il lavoro di Alice Padovani insiste su questa modalità operativa in un momento nel quale vi si concentrano numerosi artisti della stessa generazione. E tuttavia lo fa in un modo decisamente personale e riconoscibile, capace – caso non comune – di mettere in crisi non solo il modello dei precedenti degli anni sessanta e settanta, ma anche la stessa riflessione contemporanea sul tema. Innanzitutto, il discorso formale della raccolta è qui portato agli estremi: c’è una fascinazione per l’allestimento, per il gioco di simmetria e variazione, per l’associazione warburghiana di stimoli visuali, che eccede di gran lunga la freddezza sistematica del “museo” tradizionale per diventare una sorta di ipnosi. Leggi Tutto
19 Settembre 2019