La collezionista di emozioni
Ormai 15 anni fa, Hal Foster introdusse nel dibattito critico la definizione di «impulso archivistico», o «pulsione archivistica» («Archival Impulse»). Si trattava di un raffinato ossimoro che gli consentiva di analizzare una tendenza ben precisa dell’arte contemporanea, sottraendola all’interpretazione legata alla “schizofrenia” postmoderna e collocandola invece nell’ambito di un sentire consolidato. Si trattava di tutte quelle forme d’arte che contemplavano una collezione o un archivio, raccogliendo e classificando materiali preesistenti al di fuori di qualsiasi logica funzionale, oppure creando da zero oggetti tenuti insieme da un criterio seriale e quasi rituale. Il collezionismo, l’archiviazione ordinata della realtà superavano lo stereotipo della fredda razionalità classificatoria mettendo in luce, al contrario, la propria natura ossessiva (o ossessivo-compulsiva), la pulsione, appunto, che ne stava alla base, e che diventava in certi casi pulsione estetica, quasi un feticismo delle forme e della fenomenologia del raccogliere, schedare ed etichettare. Il lavoro di Alice Padovani insiste su questa modalità operativa in un momento nel quale vi si concentrano numerosi artisti della stessa generazione. E tuttavia lo fa in un modo decisamente personale e riconoscibile, capace – caso non comune – di mettere in crisi non solo il modello dei precedenti degli anni sessanta e settanta, ma anche la stessa riflessione contemporanea sul tema. Innanzitutto, il discorso formale della raccolta è qui portato agli estremi: c’è una fascinazione per l’allestimento, per il gioco di simmetria e variazione, per l’associazione warburghiana di stimoli visuali, che eccede di gran lunga la freddezza sistematica del “museo” tradizionale per diventare una sorta di ipnosi. Parlerei, a questo proposito, di una sorta di ritualità dello sguardo, di un’oscillazione ritmica, incantata, tra il tutto dell’opera finita e la singolarità di ciascun suo componente, naturale o artificiale che sia. Penso soprattutto alla serie Collezione di una gazza ladra, che già nel titolo racconta l’essenza di questa ricerca: oggetti “rubati” quasi casualmente, in virtù di uno stimolo estetico dato dal loro luccichio, ma poi organizzati in una collezione, in un tutto tenuto insieme per associazione. Prediamo ad esempio empty nest greengold. L’occhio, di fronte all’installazione, compie un percorso costante e sempre parziale: è attratto, come quello della gazza, dallo splendore dell’oggetto singolo, dalla sua pura e semplice presenza fenomenica; successivamente, però, è portato a spostarsi sull’oggetto vicino, e quindi su un gruppo di oggetti, guidato da uno stimolo di senso opposto, squisitamente umano, che cerca analogie e criteri d’insieme; infine, si lascia catturare dal quadro, dall’opera nella sua totalità, dal dinamismo dato dall’asimmetria della composizione, da quel vuoto circolare che crea uno spazio drammatico, entro il quale vengono quasi risucchiati i vari oggetti, dal ritmo ipnotizzante degli spilli e delle loro ombre; e da qui torna a “zoomare” sui singoli elementi, in un processo circolare regolare, ma diversificato nella scelta del punto da fissare. Una stessa inquietudine dello sguardo si ritrova nella serie Fracture, nella relazione tra l’integrità quasi scioccante dell’insetto al centro del cerchio e la frammentarietà dei cocci che lo circondano. Qui l’oscillazione, come e ancora più che nell’opera appena descritta, riguarda le categorie del visivo e del tattile: lo sguardo che attiviamo vorrebbe avere un dito che segua i profili delle fratture; è uno sguardo aptico, fatto cioè di una visione che vuole farsi tatto, come di fronte alla vetrina di una pasticceria, o ad un corpo desiderato. E che questa sia la strada da seguire lo mostra chiaramente infinito terreno, nel suo gioco di forme tra la morbidezza del corpo e la forza respingente (ma al contempo attraente) degli insetti, tra opacità dell’uno e ostentata lucentezza degli altri, tra la staticità priva di vita del manichino e l’inquietante dinamismo degli organismi intrusi che sembrano correre verso il collo. Nel mettere in pratica questo metodo di ricerca e di presentazione, Alice Padovani accoglie la sfida di un doppio flirt con la soddisfazione facile della “maraviglia” barocca e con la rassicurante eleganza del puro compiacimento estetico. E anche in questo caso sceglie un tertium, più arduo ma certamente più fertile: non abbraccia cioè acriticamente i due pericoli, né li evita come farebbe forse un qualunque bravo artista. Piuttosto, li mette a tema, li fa risuonare in modo tale da svelarne criticamente la superficialità, al tempo stesso recuperandone l’indubbio fascino per i sensi. Al punto che questi lavori, soprattutto se visti nella logica cumulativa del collezionista, finiscono per parlarci di noi, della voracità del nostro sguardo, e della fragile illusione che esso sia in grado di controllare il mondo, mentre non vorrebbe fare altro che accarezzarlo e farsene possedere.
Laureata in Filosofia e in Arti Visive, dalla metà degli anni ‘90 al 2012 si forma e lavora come attrice e regista nell’ambito del teatro contemporaneo. Parallelamente, preferendo l’utilizzo del disegno, dell’installazione e della performance, sviluppa il proprio percorso di artista visiva che la porta a esporre in mostre personali, collettive e fiere d’arte a carattere nazionale e internazionale. I suoi lavori fanno parte di alcune importanti collezioni a Roma, Parigi e Londra. Attraversando differenti tecniche, materiali e linguaggi espressivi, la ricerca di Alice Padovani trae origine dagli archetipi di meraviglia e repulsione. Con uno spirito classificatorio simile a quello neosettecentesco, essa unisce alla spontaneità dell’impulso creativo, il rigore del metodo scientifico. Passando attraverso installazioni vegetali, assemblaggi entomologici e performance agite con insetti vivi, nelle sue opere propone frammenti di una natura decontestualizzata e crea collezioni che sono, al contempo, cumuli e tracce, dove la memoria naturale e quella personale si fondono per diventare il punto di origine.
Kevin McManus