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Scintille d’arte presenta: Francesco Arecco

Francesco Arecco è, innanzitutto, uno scultore vero. Può sembrare un’affermazione retorica, specialmente in un ambito come la critica d’arte, fatto ormai di giudizi assiomatici e superlativi assoluti; eppure, dire questo di un artista non è un elogio scontato. Per Arecco la scultura è un medium che ha ancora molto da dire, ed è in grado di dirlo con i propri mezzi, senza bisogno di slittamenti semantici e allargamenti di campo (seppur legittimi). La sua scultura è talmente scultura da dare in molti casi l’impressione di non essere altro, di non comunicare nulla se non le dinamiche visuali del proprio mezzo; di non essere, insomma, disponibile allo sguardo di tutti, chiusa com’è nell’ermetismo delle sue forme minimali.

Ebbene, è davvero un’impressione, e niente di più: certo, i lavori di Arecco richiedono un occhio disposto a dedicare del tempo a guardarli, si propongono nella loro economia di forme come un dono, e ogni dono – come scriveva Montale – “presuppone la dignità di chi lo riceve”. Una volta compiuto questo passaggio, come avviene nel percorso di conoscenza della grande musica e della vera letteratura, ogni incontro con queste sculture suscita una familiarità amica, incardinata su alcuni dei motivi ed elementi ricorrenti nella ricerca dell’artista piemontese. In primis, il legno. Arecco non può (non vuole) prescindere da questo materiale. Non perché sia desideroso di manipolarlo, di sottometterlo al capriccio della composizione; ma perché è il legno stesso a parlare, a racchiudere una storia, ad emettere i profumi e i suoni del tempo. Anche la scelta del tipo specifico di legno non è mai arbitraria, e

tantomeno casuale: ogni legno ha una storia propria, dice qualcosa della terra con cui ha vissuto, e ad ascoltarlo bene suggerisce già gli usi a cui sarà destinato, una volta che avrà trovato uomini capaci di coglierne il segreto. Un esempio ricorrente in grandissima parte delle opere di Arecco è costituito dall’abete rosso di risonanza; legno fatto per vibrare, per cantare, per produrre piccole architetture fatte d’aria e di suono.

Poi, il nascondimento. Dalla più minimale al più articolata, queste sculture non si limitano mai alla pura apparenza. Tutto, in loro, ci comunica protezione, accoglienza del senso. Sono opere che, come la celeberrima porta bucata di Duchamp, ci invitano a guardare dentro, ad andare oltre, anche se l’unico contenuto di questo oltre è lo spazio vuoto della cassa di risonanza, o addirittura il semplice atto del proteggere e, a parti inverse, del cercare. Contrariamente alle forme monolitiche del Minimalismo, insomma, i lavori di Arecco non si limitano ad esserci, ma ricercano l’essere. Infine, il rapporto con lo spazio. Molta arte che segue questa linea del

“poco” ci ha insegnato a far scivolare lo sguardo al di fuori dell’opera, verso il contesto spaziale. Arecco ci chiede uno sforzo in più: sdoppiare il nostro sguardo, o almeno renderlo abbastanza curioso da voler abbracciare il fuori e il dentro, da voler cercare nella forma la chiave del suo funzionamento installativo. Una richiesta che, dopo aver ricevuto un simile dono, vale la pena di accontentare.

Kevin McManus