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Scintille d’Arte presenta: Cesare Galluzzo

Ci sono almeno due modi di rapportarsi con lo spazio. Lo si può usare, trattare come un vuoto funzionale alle nostre esigenze di movimento, accumulo, interazione; oppure si può contemplarlo, renderlo oggetto di un’esperienza estetica e non utilitaristica. Lo stesso discorso si potrebbe fare di numerose componenti della nostra quotidianità, come ad esempio il cibo; e tuttavia, in quel caso, il godimento della fruizione fine a sé stessa è fin troppo evidente, disponibile a chiunque. Per creare un’estetica dello spazio, invece, ci vuole un artista. Intendo “spazio” nel suo senso più letterale, al di qua di qualsiasi caratterizzazione di luogo, che spesso comporta già una bellezza (o una bruttezza) di partenza: spazio, quindi, come pura distanza tra ostacoli, come entità penetrabile e percorribile, come superficie e volume. Il lavoro di Cesare Galluzzo interpella innanzitutto questo spazio; smaterializzate fino a diventare un insieme di linee (il “filo” protagonista di una personale bolognese di alcuni anni fa), le sue opere assumono lo spazio come una sorta di pagina bianca, rispetto alla quale diventano segni minimali e discreti. Tuttavia, come un grande disegnatore riesce a dischiudere un mondo con pochi tratti su un foglio di carta, così Galluzzo, con una lama sottile di materiale, tramuta lo spazio neutro in un luogo di costruzione e trasmissione di senso. La scelta per il poco, per un uso minimale dei materiali scultorei, pertanto, non è una semplice questione di economia di mezzi, né una superficiale adesione alla retorica del silenzio, della pausa contrapposta a quella del rumore e della proliferazione di immagini: per Galluzzo si tratta piuttosto di un fondamentale principio di poetica. Ad essere condiviso con chi osserva non è il togliere tipico del lavoro dello scultore, bensì un mettere, un gesto capace di trasformare lo spazio in un luogo. E che questo processo sia semplice, come in Tutte le volte, o composito, come in Salire cadere – un cosmo in miniatura, in cui le forme si custodiscono a vicenda – poco cambia: la presenza di questi segni genera un potenziale, una sorta di campo magnetico per lo sguardo, che nutre di senso lo spazio e al contempo si nutre delle sue dimensioni, dei suoi limiti, rendendoli poetici. La questione si complica, e si arricchisce, quando il contesto degli interventi di Galluzzo è tutt’altro che neutro. È il caso di questa mostra, i cui spazi sono fortemente connotati come luoghi, con una storia visibile e tangibile in ogni angolo, con oggetti ed elementi architettonici che raccontano questa storia sullo sfondo di una natura già costituita come immagine, come esperienza estetica. Nel rapportarsi con i luoghi di questo tipo, la scrittura dello spazio proposta dall’artista, anziché venirne cancellata o sovrastata, sembra trovarvi un pieno compimento, come se le sue parole venissero cantate da una voce sempre diversa, e con una melodia creata dal luogo stesso. È una delicatezza potente, quella del lavoro di Galluzzo, e questo non solo grazie alla qualità del gesto: si tratta di una scelta precisa, la scelta di un’arte che sappia esistere (nello spazio) a prescindere dai caratteri del luogo che la accoglie, ma che a contatto con il luogo sappia mantenere la sua pregnanza di segno, in un dialogo capace di arricchire entrambi gli interlocutori.

Kevin McManus