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Leonardo Genovese. Aprile è il più crudele dei mesi

A cura di Ilaria Bignotti e Camilla Remondina Con la collaborazione di Lorenzelli Arte

Nel contesto di Brescia Photo Festival 2024 Testimoni

È trascorso poco più di un secolo da quando venne pubblicata La terra desolata (The Waste Land) di Thomas Stearns Eliot, tra i più conturbanti, densi e ancor oggi mai pienamente decifrabili scritti della poesia modernista.

Aprile è il più crudele dei mesi generando / lillà dalla terra morta, mescolando / memoria e desiderio, risvegliando / sopite radici con pioggia di primavera: così s’avvia il poemetto in cinque movimenti, definendo il periodo del risveglio delle forze naturali come un momento violento, incontrollabile, sconosciuto, e mescolandolo con un affresco sulla decadenza dell’umanità all’indomani della prima guerra mondiale. Un capolavoro del XX secolo quanto mai attuale, oggi.

Osservando le fotografie di Leonardo Genovese, tra i più criptici fotografi contemporanei, attento esploratore di credenze e rituali antichi, sepolti nella terra morta delle convenzioni quotidiane, risuonano allora potentemente i versi del poeta.

Gli occhi di un cavallo blu, i gesti raccolti di mani segnate di abitanti del profondo sud – un sud del mondo, un sud d’elezione – e quell’uomo-vate seduto con una luce fioca alle porte di una caverna incoronata di verde lussureggiante, sono solo alcune delle icone che Genovese ha, nel corso della sua oramai quarantennale ricerca, saputo fissare sulla pellicola e poi su carta, per dar luogo a una narrazione carica di evocazione, memoria e desideri nascosti, apparentemente lontani dal nostro tempo eppure oscuramente “conosciuti” dal nostro inconscio.

La mostra intende allora ripercorrere, attraverso una selezione di fotografie, la sua indagine attenta e meditata, lasciando che i due ambienti espositivi, anticamente adibiti a luoghi di riparo e ricovero di bestiame e foraggio, esaltino ancor più la matrice ancestrale dell’opera di Genovese.

Tra le opere in mostra, alcune appartengono alla serie Lupercale del 2014: Luperco era una divinità pagana che gli antichi romani veneravano affinché proteggesse il gregge dai lupi. Genovese ritrae pastori e contadini residenti in un borgo della profonda Lucania, la cui immagine richiama la fine di una civiltà e risveglia in noi la memoria di antiche credenze, di potente sapienza. Altre opere appartengono alla serie Cavallo blu del 2014-2016, dove appunto questo animale, carico di significati e di rimandi anche nella storia dell’arte, diventa un soggetto privilegiato per una indagine poetica sul mistero. Poi vi sono i Dittici, di più recente realizzazione, che invece indagano il rapporto tra superficie del visibile e profondità del segno, dichiarando il potere disvelante della fotografia.

Completa la mostra la proiezione di Eidos, 2011: diretto dal fotografo, con la partecipazione dell’attore Vincenzo Armentano, il cortometraggio di 18 minuti è un’allegoria della caverna platonica, attraverso gestualità arcaiche. In un fitto bosco di abeti, un uomo enigmatico dalla bianca camicia e

dal volto terrigno, austero, muove le mani secondo gesti che paiono officiare un antico rituale propizio alla germinazione. Spezza rami scheletriti dalle piante con i quali colma due grossi sacchi, prima di cominciare a disseminarli lungo i sentieri silvestri. Il paesaggio è avvolto dalla luce delle stagioni che filtra nel mistero ancestrale del bosco.

È questo il primo film di un trittico cui seguono: Illune, 2012, e Lupercale, 2014. Questi tre film rappresentano una ideale trilogia, sono girati e ambientati tutti e tre in Lucania, una regione del Sud Italia, ma vi si potrebbe riconoscere qualsiasi Sud del mondo, o un irreale meridiano.

Ma Eidos è anche il titolo della fotografia che fa da immagine guida della mostra e che si staglia nel percorso espositivo. Tenuta da un uomo di spalle, quella luce, fioca e piccola di fronte alla vastità dell’antro e della natura, è però persistente, ci dice cosa seguire o cosa, almeno, desiderare: forse, suggerisce Genovese, di tornare a guardare davvero le cose, anche le più semplici, appena sotto la crosta della terra arida e desolata.