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L’attitudine all’arte di Giorgio Mattia

L’attitudine all’arte di Giorgio Mattia

Mariacristina Maccarinelli

“Per una singolare vocazione, il cieco diventa un testimone: deve attestare la verità o la luce divina. Archivista della visibilità – come il disegnatore, in definitiva, la cui responsabilità condivide.” (Derrida)

Si dice spesso che lo scopo dell’arte contemporanea sia di porre delle domande, suscitare interrogativi e dubbi, più di quello di dare delle risposte, di suggerire delle certezze. Questo è proprio l’intento di Da qui non si vede più la casa di Giorgio Mattia. Ma prima di parlare del senso della mostra e delle opere esposte, è doverosa una premessa su come questo giovane artista (1997), originario di Frosinone ma milanese d’adozione, stia impostando la sua personale ricerca attraverso alcuni elementi ben riconoscibili e strutturali. Metodo. L’approccio di Giorgio Mattia ai temi che sceglie di indagare parte sempre dalla storia, sia essa legata ad un avvenimento collegato in qualche maniera al il suo vissuto, perché parte della storia personale o famigliare, sia essa legata ad un evento raccontato e divenuto quindi parte di una narrazione collettiva. La sua grande cultura che spazia dalla storia alla letteratura alla filosofia, detta il processo e l’attitudine quasi archivistica di questo artista. Processo. La raccolta e lo studio dei materiali e dei documenti precede la fase della rielaborazione e schematizzazione delle informazioni che Giorgio poi elabora e ordina negli elementi che inserisce nelle sue installazioni. Nella visione dell’artista ogni singolo passaggio è parte integrante dell’opera d’arte, a lui non interessa esclusivamente il prodotto finale ma, appunto, tutto il processo che lo conduce alla realizzazione dell’opera, è l’opera stessa. Struttura. Le installazioni di Giorgio si compongono di vari elementi, una rete di dispositivi che si modificano quasi sempre in relazione allo spazio in cui vengono inseriti. Sono strutture architettoniche create con vari materiali (acciaio, fili, aghi, alluminio, cartoncino vegetale, cavi), qualche volta ricordano vagamente installazioni di matrice costruttivista, ma trasmettono una sensazione di precarietà, un equilibrio momentaneo che insinua il dubbio nello spettatore sulla resistenza della struttura, costringendolo spesso a modificare lo sguardo per seguire i percorsi spaziali dell’opera. Disegno. Siamo giunti al nucleo dell’opera, la matrice che origina il tutto. Il classico disegno con grafite è scelto dall’artista per la rappresentazione di immagini simboliche che diventano il cuore dell’opera stessa. Tutta la tecnica e l’ingegno applicato negli interventi installativi, hanno come finequello di supportare le immagini disegnate. Anchequi l’artista non rende facile e immediata la lettura dell’immagine a chi guarda mostrando una rappresentazione reale, al contrario pone lo spettatore di fronte ad un’immagine velata, offuscata, sgranata, sospesa nel tempo, che vuole evocare, suggerire una possibile lettura ma che resta solo una delle tante possibilità.

La mostra Da qui non si vede più la casa, come spiega Giorgio Mattia nella sinossi che accoglie lo spettatore all’inizio del percorso, nasce dal libro Memorie di cieco del filosofo francese Derrida. Ma riprendendo anche lo scrittore Saramago, attraverso l’allegoria della cecità, l’artista ci invita a riflettere sull’incapacità umana di vedere ciò che gli occhi non mostrano, oltre l’apparenza (ciò che ci appare), sull’incapacità di cogliere le sfumature della realtà fino ad arrivare all’essenza delle cose. La mostra si divide in due ambienti, nel primo troviamo il racconto di una storia legata alla sfera intima di Giorgio. L’installazione comprende un tavolo con il Compendio (sull’impossibilità) dal quale si diramano i cavi che tengono in tensione altri elementi posizionati nello spazio fino al soppalco. Le citazioni letterarie, trascritte dall’artista, i disegni posizionati sul tavolo e quelli inseriti in elementi metallici, i cavi, i morsetti, le strutture in acciaio sono tutte parti dell’opera, hanno la stessa importanza perché partecipano all’opera nella sua unicità di processo. Nel secondo ambiente Giorgio Mattia ha scelto di esporre, per la prima volta, un lavoro, frutto di una ricerca e raccolta di materiali che lo ha impegnato per molto tempo, che si riferisce questa volta ad un racconto legato alla storia del nostro paese. Quest’opera è una prima mappatura di uno schema che nelle intenzioni dell’artista diventerà in futuro molto più articolato e complesso. Anche qui troviamo un Compendio che ospita la relazione Tina Anselmi sulla P2. Il disegno che ritrae l’insegna Permaflex inserito nell’installazione 167 (numero di molle dello storico materasso), è il collegamento tra gli avvenimenti che hanno segnato maggiormente la storia del dopoguerra del basso Lazio, e la storia famigliaredell’artista: infatti fu proprio il nonno a creare l’insegna della fabbrica di cui fu direttore Licio Gelli. Il tema del limite della rappresentazione, come dice bene l’artista nella sinossi, “sottostà al modo in cui questa storia viene narrata, ricordandoci come la rappresentazione stessa non sia altro che la misura della distanza chenoi abbiamo con l’oggetto rappresentato”. La ricerca artistica di Giorgio Mattia dunque attraversa più discipline, inserisce svariati dispositivi di messinscena, pone lo spettatore nella condizione di fruibilità precaria, volutamente richiede uno sforzo, uno sguardo lento e attento ad ogni piccolo particolare per cogliere tutta l’essenza del suo fare…