L’antiretorica del 5% di Angela Madesani
Non è la prima volta che pongo come premessa a un testo la mia contrarietà nei confronti di qualsivoglia etichetta, tentativo di incasellamento. Così anche in questa occasione non posso che confermare la mia posizione. Con la solita sete di descrizione potremmo definire 5% un lavoro di matrice sociale, ma è una gabbia costrittiva, limitativa. Si tratta di una ricerca più ampia, che poggia le sue radici in ambiti più complessi.
Pietro Corradini è fortemente legato al suo paese di origine, Raffa frazione di Puegnago sul Garda, di cui ha voluto raccontare sin dai suoi primi passi nel mondo dell’arte, ventenne, ancora studente, le dinamiche sociali. È, infatti, quello in mostra parte di una sorta di racconto sugli abitanti della piccola località, attraverso gli oggetti. Come in certe operazioni di matrice tassonomica di Christian Boltanski, gli “inventari di oggetti appartenuti a…”. La finalità anche in questo caso non è di studio, quanto piuttosto di narrazione di una o più situazioni, che dal gruppo giungono al singolo, alla sua storia.
L’artista ha agito applicando una sorta di empirica metodologia sociologica, cercando di annullare il proprio punto di vista. Ha dato vita a un racconto privo di un autore giudicante, che forse emerge soltanto in occasione di questa mostra, in cui Corradini si trova costretto a scegliere cosa esporre.
Raffa è abitato da circa 1200 persone, Pietro ha deciso di rappresentarlo attraverso il 5% di esse, che dà, appunto il titolo al lavoro. «Ho scelto di dividere il paese in dodici sottogruppi che lo possano rappresentare e raccontare nella sua quasi interezza, prendendo come campione il 5% del paese, circa 60 persone. I dodici gruppi scelti per rappresentare la comunità sono: tre famiglie storiche, tre famiglie nuove, gli agricoltori, i ragazzi, la fascia d’età più rilevante ovvero gli over 60, gli operai, la comunità della parrocchia e una famiglia albanese, che rappresenta la congregazione straniera più presente sul territorio»1. A questo punto a ogni gruppo è stato chiesto di fornire degli oggetti che lo rappresentano.
Il paese, l’insieme, viene descritto da ritratti di cose, fotografate con lo stesso modus operandi, su un neutralizzante fondo bianco. Anche qui i rimandi sono evidenti, in primis i Becher, che hanno catalogato gli edifici industriali del nord ovest europeo e non solo e attraverso queste “sculture del paesaggio” hanno raccontato un’epoca al tramonto, che qui corrisponde alla presenza antitetica di agricoltori e operai2.
«In ogni gruppo dei dodici, esclusi i due gruppi selezionati per età, vi è una varietà generazionale che punta a raccontare il paese, attraverso le varie fasce di età; per esempio nel gruppo degli agricoltori sono state coinvolte persone dai diciotto fino agli ottanta anni. Come il paese viene diviso in comunità, per poterlo raccontare, ho deciso di dividere le persone, attraverso i 9 oggetti scelti, per poterle descrivere, come se fosse un lavoro cubista, in cui ogni oggetto, che una persona sceglie, è un punto di vista diverso per raccontarsi. L’obiettivo finale è quindi quello di aiutare l’osservatore a crearsi un’idea autonoma della comunità, che abita il paese»3. Chiedere alle persone degli oggetti dai quali si sentono rappresentate e porre questi oggetti in dialogo è una modalità di lavorare che ricorda Legarsi alla montagna di Maria Lai. Come in tutti i luoghi del mondo anche nei paesi di 300 abitanti vi sono conflitti, amicizie, simpatie, antipatie.
In questo modo, senza didascalie di appartenenza, la lettura diviene forzatamente collettiva, lo spettatore si trova di fronte a uno sguardo di insieme di un particolare momento storico, il nostro, rappresentato attraverso un dato luogo, Raffa, di cui l’artista e la sua famiglia sono parti integrante.
1 Il riferimento è tratto dall’introduzione alla sua tesi di laurea in Fotografia, discussa presso IED, Milano, il 17 aprile 2023, della quale chi scrive è stata relatrice.
2 Il mondo agricolo sta completamente scomparendo a favore della presenza di operai e tecnici.
3 idem
La scelta di raccontare la nostra epoca, in questo caso attraverso quel particolare paese, tramite gli oggetti, è mutuato dal metodo utilizzato in archeologia per ricostruire la vita degli antichi. La raccolta delle cose, che divengono frammenti di storie personali, rimanda a una dimensione che può essere definita archeologia del presente, con un chiaro riferimento a un ambito di natura antropologico-artistica.
Pietro Corradini è solo colui che spara la pistola a salve, che dà lo start, è la popolazione, che si trova a scegliere, a decidere: la sua è un’operazione, in cui il tentativo di eliminare il ruolo attivo dell’artista esecutore è perfettamente riuscito e anche la documentazione fotografica, simile a una fototessera, riesce a sottolineare la dimensione antiretorica d’insieme.
In tutto questo è una certa ironia, che non significa che una risata ci seppellirà, la sua è più sottile, più profonda in essa si avverte una posizione originale e intelligente in un tempo in cui la maggior parte dei giovani parrebbe disinteressata alla politica, alla storia.
L’apparenza scanzonata di Pietro cela un atteggiamento profondo e informato nei confronti dell’attualità, della storia, della memoria.
Nel nostro impero del consumismo sfrontato, che vede sempre più allargarsi la forbice tra le classi sociali, tutto pare dominato da una fredda dimensione statistica, che diviene il titolo della sua ricerca in cui, tuttavia, tutto parte da una volontà di conoscenza dell’altro, al di là di una dimensione religiosa, censuale, anagrafica, che auspica a una dimensione di nuovo umanesimo.