La profondità del fluido. Miriam Montani
Occhio e sguardo sono legati, fin da Aristotele, in una complessità primigenia entro la quale le attività dello spirito e i meccanismi del corpo sono non solo inscindibili, ma talvolta indistinguibili nel loro stesso manifestarsi. Tra la visione e lo sguardo intercorre infatti uno spazio articolato, un tessuto connettivo fatto di due fibre che si intrecciano, l’una presupposto dell’altra: c’è prima il vedere o il guardare? Solo vedendo si può guardare – nel senso stretto del termine – ma solo guardando, in fin dei conti, si può vedere veramente. L’occhio si colloca all’inizio di questo intreccio, di cui è presupposto biologico, ma anche alla fine, quando lo sguardo trova conferma nella visione vera. Insisto sulla “verità”, perché è nello sguardo dell’arte – e verso l’arte – che essa diventa una qualifica necessaria. Non si parla naturalmente della verità teoretica, storica o scientifica; è la verità intesa come compimento effettivo e certificato di un processo: l’artista deve vedere (e far vedere) per davvero. Nell’opera d’arte, quindi, l’occhio è oggetto di cura sia nella sua natura letterale, di organo della vista, sia in quella metaforica di scandaglio concettuale e spirituale.
Nei lavori esposti in questa mostra, Miriam Montani parte appunto dall’occhio, dalla sua attività articolata tra letterale-epidermico e simbolico-profondo: meglio ancora, parte da una secrezione acquea (l’umor acqueo del titolo) che rende possibile la visione, facendo da mediatrice nel rapporto tra la superficie dell’occhio stesso e la luce, a sua volta medium primario di qualsiasi fenomeno visuale. L’acqua, origine e garante della vita, è quindi origine e garante anche dello sguardo, della possibilità di conoscere il mondo secondo le categorie del visuale. È proprio nello snodo acqua/luce che opera, ad esempio, Neve / Trasposizioni di luce (2017), un doppio trittico che associa tre foto di cumuli di neve alle loro rispettive trasposizioni scultoree in vetro di Murano. La neve e il vetro, due materiali investiti dalla luce, il cui aspetto – anzi – è determinato proprio dalla loro capacità di filtrare i raggi luminosi; ma ad essere fatta di luce è soprattutto la fotografia, in un gioco di rimandi simbolici che mette in campo le forme della mediazione e la mediazione della forma, qui emblematicamente forma fluida, che riporta alla mutevolezza di stato propria dell’acqua. La luce è ovviamente protagonista in Impermanenze (2016-17), dove svolge il ruolo di poetico paradosso nei confronti delle forme “trovate” utilizzate dall’artista: calcinacci e detriti del terremoto avvenuto presso Norcia il 30 ottobre 2016, che la luce sublima e smaterializza, al tempo stesso eternandoli mediante la proiezione in una dimensione simbolica. Oggetti simili, e dalla storia analoga, sono alla base di Impermanenze II (2018-2021), basato invece sulla trasparenza della carta giapponese, sulla luce come rivelatrice di forme. “Rivelarsi” è forse un verbo che ben si addice al modus operandi di Miriam Montani: i suoi lavori sembrano sfuggire l’incorniciamento istituzionale, non per sfidarlo chiassosamente, ma per presentarsi come pietre d’inciampo, come emergenze occasionali che il fruitore è inventato a trovare lungo il cammino: è il caso di Inversioni di Volo (2021-21), ad esempio, o nello Studio per Radicamenti III (2021), soluzioni che trovano terreno assai fertile negli spazi irregolari e pieni di storia della Fondazione.
Ma l’impermanenza, altro filo rosso della mostra, si manifesta anche in lavori più chiaramente incorniciati, come in Carta di Iris (2018-2021) o Radicamenti (2019). Ci sono opere d’arte che invocano su di sé uno sguardo pieno, contemplativo; altre che lo sguardo lo sviano o lo catturano per vie traverse. Queste “carte” optano per una modalità di ingaggio ancora diversa: chiedono al nostro sguardo di attraversarle, di entrare in esse e uscire di nuovo, dopo un attimo, modificato: il percorso fisico dello sguardo, che segue qui la luce nel suo penetrare queste superfici sottili, corrisponde quindi a un percorso di senso, di conoscenza, entro il quale l’elemento figurativo appena percepibile (le radici dei Radicamenti, per esempio) si imprime nella mente come una sorta di fantasma o di after-image. Una medesima attenuazione materiale del rapporto sguardo-immagine è operata – non per caso – da Alleggerire la Morte II, laddove l’impermanenza, la fluidità di forme e tecniche compie il percorso dai miti primigeni della sala precedente al discorso sulla fine, sull’impermanenza ultima. Anch’essa tuttavia viene liberata dal peso dell’ineluttabile, diventa precaria tanto quanto la vita, come precaria è la materia che caratterizza la tecnica dello spolvero, ma anche la natura dei volantini che riportano l’immagine dell’opera, atti ad essere sollevati per volare via, per dare vita ad un gesto reso significante proprio dalla sua immediatezza (e impermanenza) performativa. L’idea del volantino come medium del “sollevamento” viene da una conferenza di Georges Didi-Huberman, lo studioso che più di tutti, forse, si è occupato dell’immagine come momento, come gesto di nascita, morte e rigenerazione. Concetti che abitano lo spazio della fluidità, delle impermanenze fatte di acqua e di luce.
Miriam Montani (Cascia, Perugia – 1986), vive e lavora tra l’Umbria e Milano.“Umor Acqueo. Trasparenze di luce e forma” è la sua prima mostra personale bresciana.
Laureata in pittura presso l’Accademia di Belle Arti di Venezia. Dal 2008 al 2016 ha lavorato come artista-curatrice presso l’esposizione annuale d’arte contemporanea LuciSorgenti nei Musei Civici di Cascia – PG (Sistema Museo), iniziativa ideata da Studio A’87. Nel 2016, in seguito al terremoto che ha duramente colpito il centro Italia, fonda il progetto collettivo SciameProject, luogo di raccolta e condivisione dove artisti, curatori e critici possono depositare opere, pensieri e idee attorno a concetti di memoria, abitare, disabitare, radicamento, sradicamento e motus. Nel 2016 attiva nella realizzazione dell’opera di Sol LeWitt Wall Drawing #343 al Museo Punta della Dogana, in occasione dell’esposizione Accrochage a cura di Caroline Bougeois; nel 2015 collabora alla realizzazione dell’opera di Maria Eichhorn all’Arsenale – 56° Biennale di Venezia ed inoltre assistente di Mukai Shuji (Movimento Gutai) per la realizzazione dell’opera Space of Signs Selfie Studio 2015, in occasione dell’esposizione Proportio a Palazzo Fortuny (56° Biennale di Venezia).
Dal 2015 attiva periodicamente presso Progettoborca, Dolomiti Contemporanee. Tra il 2019 e il 2020 tra gli artisti in residenza a Viafarini (DOCVA), Milano. Tra i principali premi a cui ha partecipato: Artefatto 2016 (Trieste), Premio Francesco Fabbri per le Arti Contemporanee 2017 (Pieve di Soligo, TV), Premio Cramum 2019 (Milano), ArteamCup 2019 (Sanremo), Premio San Fedele edizioni 2019 e 2020 (Milano), ArteamCup 2020 (Forlì). Contestualmente, Montani espone in vari musei e luoghi di interesse storico e culturale in Italia ed Europa.
Kevin McManus