Di mostri, immagini e tavoli da lavoro
Prima avvertenza per chi si appresti a visitare questa mostra di Diego Randazzo: la mostra stessa è l’opera d’arte. Non a caso il suo titolo, Pluto On Me, ha la pregnanza semantica e poetica tipica dei titoli di opere, più che l’equidistanza suggestiva dei titoli di mostre. “Pluto on me” evoca innanzitutto, di per sé, un immaginario ambiguo e surreale; fa pensare all’astrologia, a una misteriosa influenza di Plutone sul soggetto-artista, o sul soggetto-fruitore, salvo poi incanalarsi, già grazie all’iconica immagine di locandina, verso la possibilità apparentemente più scherzosa e familiare: Pluto è il Pluto dei fumetti e dei cartoni animati, il fedele e adorabile cane di Topolino, caso forse unico di antropomorfizzazione mancata entro l’amato universo disneyano. La preposizione “on”, che appunto contribuirebbe a suggerire la lettura astrologica (“su/sopra di me”) va piuttosto a descrivere una dinamica di metamorfosi, di fusione asimmetrica di due soggetti: Pluto, appunto, e lo stesso Randazzo, il cui volto autoritratto è fuso, nel film di animazione al centro della mostra, con l’inconfondibile corpo del cane. Apparentemente familiare, dicevamo, in quanto l’avvenuta metamorfosi parziale, in questo racconto, ha del perturbante, proprio perché crea un ibrido tra due immagini diversamente familiari, collocate a due diversi gradi di intimità. Per dirla in termini iconologici, associa un’icona a un’immagine, una rappresentazione di una rappresentazione a una rappresentazione della realtà; e non lo fa con l’accostamento di forme discrete, con la sovrapposizione di superfici tipica della tecnica mista rese celebre da tanti film Disney (Mary Poppins, giusto per fare un esempio): lo fa creando un essere nuovo, fatto di un’unica sostanza. Un mostro, per usare il termine nel suo senso proprio. Il perturbante messo in atto da Randazzo agisce quindi in primo luogo a livello di contenuto simbolico, di narrazione: il mostro si presenta con le movenze e le espressioni facciali di Pluto, ma con le fattezze dell’artista, e proprio questa fusione di identità, con la sua rivelazione, è il motore della vicenda. Il mondo delle immagini è un mondo di mostri, fatto di una logica che gli è propria, entro la quale qualsiasi restrizione normativa e logica (si pensi alla coerenza degli universi di fantascienza) non è che un accordo – non necessario – tra icona e fruitore. Il perturbante agisce dunque a livello di contenuto simbolico, ma non è questa l’unica componente alla quale Randazzo si dedica; come sempre nella sua ricerca, una forte salienza dell’immagine e dei suoi significati si accompagna a un’indagine specifica e problematica del medium utilizzati. Il visitatore della mostra troverà infatti, nelle sale antecedenti al video, una serie di disegni – ciascuno autonomo, ciascuno un’”opera”, e al tempo stesso un fotogramma all’interno della sovra-opera del film – che mostrano il racconto nella sua componente materiale, che svelano, per così dire, di cosa è fatto il racconto stesso. Un’esperienza potenzialmente immersiva, illusoriamente continua, come quella del video, viene apparentemente decostruita nell’esplicita ostentazione delle sue parti costituenti. Anche qui apparentemente, tuttavia, perché il consueto dualismo tra immersività del video e distacco del fotogramma, tra l’evanescenza dell’uno e la pregnanza iconica dell’altro, è a sua volta attutito in un’altra modalità perturbante: il film, infatti, manifesta chiaramente la sua fattura, la discontinuità che ne è alla base, ostacolando l’istinto spettatoriale di inseguire la continuità, la simulazione del movimento reale. I disegni, dal canto loro, con la loro forza ipnotica, vanno ben oltre la funzione di fotogramma, apparendo piuttosto come una serie entro la quale il soggetto è reiterato e fissato nell’immaginario del fruitore. Così che il “come è fatto”, anziché ridimensionare la dimensione perturbante del film, la estende e la trasforma in una sorta di atmosfera, rispetto alla quale il terzo momento, un tavolo da animazione che mette al centro proprio il lavoro alla base della creazione del film, diventa una sorta di dispositivo magico, una fabbrica di mondi. “Momento”, dicevo, perché il terzo elemento perturbante è proprio la successione temporale delle diverse “fasi” del progetto: il film al centro genera un’impressione di circolarità, o di pendolarità, fra l’esito finale (o presunto tale) e le sue fasi preparatorie. Il film è la messa in movimento della sequenza di fotogrammi, ma al tempo stesso essi sono una sua emanazione: ancora una volta abbiamo l’impressione che il Pluto/Randazzo, con la sua vicenda metamorfica, sia reiterato in continue apparizioni, piuttosto che sottomesso allo spezzettamento della pratica audiovisiva. Non è un caso che il tutto sia introdotto da alcuni lightbox, immagini fluttuanti e sospese tra statico e mobile, analogico e digitale, illusorio e apertamente fittizio. Apparizioni, per l’appunto, come è sempre un’apparizione – se sappiamo coglierla come tale – l’esperienza dell’immagine.
Kevin McManus