back to top

Il tempo (non) è una cosa seria: appunti su Mirijam Heiler

Il tempo (non) è una cosa seria: appunti su Mirijam Heiler
Kevin McManus

Un tema ricorrente nella storia dell’arte, addirittura fin dalla preistoria, è l’introduzione del tempo in forme di rappresentazione statiche. Si pensi alla temporalità di lettura data dall’iconografia, dalla “storia” raccontata nei cicli di affreschi e nei polittici; o al dinamismo formale che ha caratterizzato molta pittura (dal barocco al romanticismo, dall’impressionismo al Futurismo); o ancora al tempo letterale dei fenomeni percettivi, indagato da alcune avanguardie costruttiviste, dall’arte Optical, o più recentemente dalla pittura analitica, per fare solo alcuni esempi. Mirijam Heiler si colloca in un ambito di ricerca nel quale la dimensione del tempo è, per così dire, intrinseca all’opera, e si mostra attraverso materiali o elementi compositivi a loro volta recanti un tempo e una storia, oppure attraverso forme che trattengono in sé la manifestazione del loro farsi, del processo creativo che le ha prodotte; oppure ancora, attraverso un rapporto tra segno, colore e supporto che invita l’osservatore a “dare tempo” al proprio sguardo, a contemplare (verbo che oggi sembra passato di moda) con l’attenzione che si dedicherebbe a uno spettacolo naturale o a un brano musicale. Tutte e tre le possibilità sono esplorate con estrema efficacia dai lavori presentati in questa occasione. In Skin, Poem, una pittura segnica fatta di impulsi minimali, di una scrittura fitta ma metodica e di estrema pulizia formale, la funzione di “alfabeto” è svolta da una serie di aghi di pino riprodotti con raffinata e paziente precisione; un testo non-testo, o se vogliamo un testo-gesto, nel quale l’artificio per eccellenza, il linguaggio, è dato da elementi organici, naturali. Una scrittura che manifesta dunque un senso, ma che non si lascia ridurre ad uno specifico significato verbale, e che intreccia diverse forme di temporalità: quella del singolo carattere, dell’ago di pino come prodotto naturale, nato da processi con una durata e da una sedimentazione di tempi sovrapposti; quella del percorso realizzativo, che la linearità dei diversi “righi” di testo mostra nel suo dipanarsi progressivo; quella della lettura da parte del fruitore (una lettura vera e propria, trattandosi appunto di scrittura), la cui scansione temporale è data dalla disposizione dei segni, da sinistra a destra, dall’alto in basso. Le due opere intitolate Rain, d’altro canto, riprendono questa linearità, complicandola tuttavia con l’introduzione di un tempo differente, quello prodotto dagli elementi verticali e ritmici, dalle pause, ma anche quello suggerito da un titolo – riferito a un fenomeno squisitamente temporale – che nella versione più evocativa, quasi naturalistica, in blu, assume il carattere di vera e propria descrizione iconografica. Anche la grande installazione Womb, nata da una collaborazione con AliPaloma, gioca su temporalità diverse e tra loro intersecate: quella del materiale tessile, che porta in sé la matrice del fare, del generarsi (come implica del resto la natura verbale dello stesso aggettivo “tessile”), ma anche quella più sottilmente performativa dell’oggetto stesso, che mette in atto, ostentandola, la propria presenza gravitazionale, il proprio accadere all’interno dello spazio e del luogo: un potenziale generativo che, naturalmente, fa sue le suggestioni proposte dal titolo, rilanciandole in un dialogo relazionale con l’osservatore e lo spazio. Anche Skin denota il gusto per la suggestione iconografica: una pelle di piccoli segni ad inchiostro, che nel suggerire la leggerezza di un volo, o di una muta, produce un analogo effetto di gravità, di rotazione attorno a un centro, sfaldandosi tuttavia anche nei numerosi elementi grafici che, pur suggerendo l’effetto di una superficie, mostrano ciascuno la propria linearità e, ancora una volta, il proprio processo realizzativo. Allo spazio della contemplazione, di cui si diceva in avvio, sono dedicati invece i lavori della serie Home. Forme minime ma mai minimaliste: evocative anzi, pregne di un simbolismo aperto e sfuggente. Esili segni che si stagliano su una superficie piena, la quale non funge da sfondo ma piuttosto da aria, da principio vitale e da elemento di sostegno alle forme stesse: qui il tempo è tempo di un desiderio, della necessità per l’occhio di soffermarsi, di farsi bocca e naso per respirare quella stessa aria. È il tempo di un’architettura silenziosa, di una musica appena accennata. Il tempo di casa. Ho insistito particolarmente sui titoli non per pedanteria, ma perché, come capita spesso agli artisti che credono nel proprio lavoro, il titolo è parte dell’opera, fa da timone nella sua navigazione, e in tutti i casi descritti riporta appunto a quella dimensione temporale che per Mirijam Heiler è imprescindibile. Il che ci porta a chiudere sul titolo complessivo della mostra: per sempre è un non-tempo, un tempo puramente ipotetico. Solo l’opera d’arte – insieme corpo e anima, forma e contenuto – può farci vedere come è fatto, e descrivere la sua durata.